[image source_type=”attachment_id” source_value=”336″ align=”left” icon=”zoom” lightbox=”true” size=”medium” autoHeight=”true”] Nello Sportswear, nel jeans, se parliamo di moda, di un certo tipo di moda, di quella che “muove” in modo subliminale i trend, che lascia il segno e che cambia le cose senza farlo percepire,senza fuochi d’artificio o pagine patinate, beh, il 2011, per me, è stato l’anno migliore, come da anni non si vedeva.
In 27 anni di esperienza in questo settore raramente ho vissuto un anno denso di novità e stimoli positivi, pieno di ispirazione, di emozione, di spunti come il 2011.
Alla faccia della crisi.
Facendo un paragone col passato solo in due occasioni ricordo un simile momento creativo e innovativo.
La prima volta nel 1985 quando Jean Paul Gaultier lanciò due importanti linee: Public e JPG Jeans.
In questi contesti, ed in particolar modo con la linea Jeans egli rivoluzionò sostanzialmente lo sportswear nel contesto fashion (che poi era ai tempi, l’unico contesto credibile, se ricordate) proponendo ai suoi clienti (e al 99% dei cantanti della British Invasion che vestivano JPG dalla testa ai piedi!) che ormai da qualche stagione vestivano le sue giacche con spalla anni 40 (ispirata allo zoot suit), un progetto jeans fatto di pochi pezzi, in denim non lavato, molto “raw”, semplice, minimalista e da portare con risvolto alto, in perfetto stile anni 50.
Incredibile, a vederlo in prospettiva, come un designer fashion e molto creativo come Jean Paul Gaultier, riuscisse a introdurre un denim “autentico” molto prima di numerose e titolate case che all’epoca avevano in mente solo grandi numeri e filosofie di larga scala e bassa qualità basate sulla totale mancanza di rispetto del proprio heritage: nessuno escluso. Purtroppo.
Ricordo perfettamente il suo cinque tasche, rigido, perfettamente tagliato che portavo con una giacca a doppiopetto nera, in tela di lana e rigorose Doc Martens con il puntale in acciaio esposto.
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[image source_type=”attachment_id” source_value=”340″ align=”left” icon=”zoom” lightbox=”true” size=”medium” autoHeight=”true”] La seconda occasione, con un salto temporale, mi porta alla prima metà degli anni 90, in particolar modo in Italia quando in un certo modo, alcune case venete, Replay e Diesel (cito questi due casi specifici perchè mi colpiscono particolarmente, in quanto poi, si fa fatica a trovare “autenticità” e “filosofia” in qualsiasi altro brand Italiano negli anni a venire!) introdussero alcune suggestioni di prodotto, molto interessanti e vere, in cui intesero portare all’attenzione del mercato il “movimento di autenticità” nel jeans che il mercato Giapponese sostanzialmente da sempre aveva posto in essere con i suoi concept di “replica” e “omaggio” ai brand storici, movimento che, nato sulle bancarelle di Ueno negli anni 50 letteralmente sulle “balle” di prodotti americani lasciati li dopo la seconda guerra mondiale, continua oggi più fresco che mai.
Ricordo benissimo che mentre Diesel lavorò in modo egregio con un grandissimo lavoro di prodotto, trattamenti e labelling nella sua primordiale “Old Glory”, che riprendeva appieno lo spirito ispiratore dei Giapponesi, traslandolo in un contesto basic, davvero evoluto, ma pur sempre originale, nel caso di Replay, sebbene le fonti fossero le stesse, questo movimento si trasmise in maniera subliminale all’interno della collezione dove tutto si fuse nella collezione e dove vennero aggiunti importanti spunti presi dal mondo militare, dal workwear e dall’outdoor.
In tal senso Claudio Buziol, operò il suo ineccepibile e incredibile lavoro di direzione artistica, lavoro che ebbi poi modo di vivere personalmente parecchi anni dopo, nell’immensa fortuna di poter collaborare con lui ad alcuni concept di prodotto mood board e nello studio del labelling per Replay, nel 2005.
Concept che (guarda caso) nella sua idea volevano riportare in auge spunti presi dal workwear e dall’outdoor in un momento in cui Replay, secondo lui, era in una fase di riflessione e forse di stasi, aggiungo io, anche pensando ad alcune chiacchierate che ebbi occasione di fare con Claudio.
Comunque, tornando a noi, verso la fine degli anni 90, appunto, coordinando perfettamente il team creativo, egli riuscì, rispetto a Diesel, a dare al prodotto quella “vendibilità” che invece Old Glory non riuscì a trasmettere.
Pensandoci oggi, Old Glory era quindi più “vera” e di conseguenza più difficile da capire, mentre Replay era più “commerciale”, sebbene ogni dettaglio, ogni materiale e molto dello stile erano perfettamente coerenti con i capi a cui si ispiravano, in alcuni casi al limite della perfezione e il lavoro grafico fatto sul labelling da Tom Garner incarnava perfettamente questi aspetti.
Successivamente Diesel, a mio avviso, fece suo il percorso di “commerciabilità” del prodotto, portando molto di Old Glory nella collezione principale, producendo quello che secondo me è stato il suo miglior momento storico, prima di perdersi in un reticolo di proposte e di divagazioni fashion/trendy che l’hanno fortemente spostata in un ambito di grande confusione, almeno per chi intende il jeans in un certo modo.
E io lo sono.
Quello che accade oggi è, invece, molto diverso. Ed è fondamentale prenderne atto, studiarlo, analizzarlo.
Il movimento di brands e designer che ha letteralmente riempito i blog (ineccepibile strumento di comunicazione, ma soprattutto di “condivisione”) e creato dal nulla nuovi retail shop, molti dei quali online (aspetto importantissimo) che hanno modellato (in senso positivo) la loro clientela educandola alla riscoperta di pezzi definibili “staple” nella storia del denim, dell’outdoor e del workwear, è molto diverso da quello che erano i “brand”, e non solo loro, nei due periodi sopra citati.
Quello che nel nel 2011 si è consolidato in pieno creando, secondo me, un nuovo “standard”, è un movimento di grande conoscenza costruttiva, tessile, del dettaglio, della grafica e della “filosofia” di prodotto (senza dimenticare anche l’aspetto della comunicazione e della presentazione del prodotto alle fiere di settore) e di grande condivisione; un movimento che non si sbaglia certo a definire di élite, dove le “tendenze moda” sono scomparse, inghiottite dalla propositività di un nuovo modo di fare il jeans e di coordinarlo con lo sportswear, fagocitate dalla voglia di revisione e “scardinamento” di limiti come quelli “commerciali” (spesso dettati dalla profonda mancanza di cultura del retail, ma anche in molti casi dall’incapacità di una certa “rete vendita” per certi versi obsoleta e travolta dagli eventi, di ritornare alla sua funzione principale: cioè vendere, proporre, scendere in strada) e portate avanti da un gruppo di marchi e di designer che è riuscito a riscrivere perfettamente i mondi del workwear, dell’outdoor e del jeans, partendo dall’accurato studio del loro passato e riproponendoli con forza e con determinazione sotto una nuova veste.
Se guardiamo dal mio punto di vista, quello del designer, questi aspetti ci accorgiamo che per certi versi essi sono, come dire, logici. Infatti per chi ha lavorato negli anni seguendo una sua personale filosofia (e io, sebbene nel mio piccolo, mi ritengo tra questi) basata sulla ricerca, sullo studio dell’archivio storico e sulla documentazione cartacea, piuttosto che sullo “shopping” e la consequenziale “copia carbone” dei capi acquistati, questo metodo non è nuovo, mentre per molti è la vera novità.
Ma, indipendentemente da questo, di cui ho già scritto, volevo soffermarmi invece sugli aspetti di stile che mi hanno colpito, ispirato e fatto riflettere.
Intanto, e prima di tutto, la grande rimonta del capospalla, della giacca e del gilet, elementi fondamentali (e troppo spesso oscurati dai bottoms) che nel 2011 sono invece emersi in modo spettacolare.
Se pensiamo solo al lavoro che Nigel Cabourn ha fatto nel riproporre un capospalla evocativo, vero, ricco di dettagli costruito partendo dal capo “vero” e facendo l’immane sforzo di ricostruirlo nel pieno e totale rispetto della sua originalità, adattando solo il fit, alle esigenze attuali, ma anche qui: non certo tradendo e deformando l’essenza del prodotto nel cercare di seguire l’assurdo filone dello slim/skinny fit (che sul capospalla ha fatto più danni che mai) ma lavorando in modo subliminale sulle proporzioni per “modernizzare” la vestibilità: non certo per adeguarla alla richiesta di un mercato che vede oggi il capospalla trattato come “accessorio” e successivamente stravolto dall’esigenza di fit a mio avviso improponibili.
Oppure all’incredibile (e solo ultimamente riconosciuto anche in Europa, grazie appunto a quella rete di negozi intelligenti e coraggiosi) lavoro di Daiki Suzuky per Woolrich Woolen Mills (la cui ultima stagione S/S 2011 rimarrà nella storia a dispetto del nuovo percorso del nuovo designer di WWM, Mark McNairy, che personalmente mi lascia un pò perplesso, per l’approccio troppo skinny e per certi versi glamour, dato al prodotto, fermo restando la grande predisposizione del designer per le calzature) ma anche per la sua Engineered Garments che non è certo nuova a chi segue da anni questo movimento elitario.
Daiki non solo ha preso spunto dalla sua esperienza di retailer, formata negli anni 70 e 80 in Giappone, sua patria natale, e dove per primo importò e mise in vendita i prodotti di Woolrich made in USA, ma quando si è stabilito a New York ha letteralmente creato un nuovo tipo di prodotto: non solo nello stile, come vedremo poi, ma soprattutto nel coraggio di rimettere in discussione la storia del workwear, dell’outdoor e per certi versi anche del tailoring, definendo di fatto quello stile che oggi chiamiamo “Americana”, che effettivamente è stato portato in rilievo, commercialmente, in modo molto forte, nel 2011.
Non posso negare che questo percorso di revisione e interpretazione mi ha fondamentalmente sempre appassionato (anche in virtù di certi “maestri” come Paolo Albertoni che mi hanno fortemente formato nei miei primi anni di lavoro come assistente e educato a questo approccio in interminabili sessioni notturne di analisi del vasto archivio vintage su cui, ai tempi, si lavorava) se si vanno a vedere certi pezzi della mia collezione personale Norwin del 1999 (con i Fatigue mod. 0001 in raso sovratinto come best seller della stagione o la giacca 2823 in fustagno foderata in tela usata comunemente per le tasche del jeans) o di Fourface che disegnai nel 2004 si possono certamente trovare spunti e condivisioni comuni con questa visione di prodotto, soprattutto nelle giacche… come dire, se si parte progettualmente da un punto comune preciso l’arrivo è quindi comune: cambiano solo il modo (e i tempi) in cui eventualmente si arriva.
Ma è certamente stato Daiki, con il suo modo di riportare in auge certi pezzi, a sdoganare nel 2011 anche da noi (EG in Giappone ormai è marchio consolidato!) un certo modo di intendere l’outdoor e il workwear e se è emerso il suo punto di vista è perchè più di tutti ha saputo trovare in chi lo segue e veste i suoi capi il giusto portavoce: il buon sell out dei suoi capi in Europa ha fatto il resto.
Pezzi come la giacca da “caccia” o il pantalone “fatigue” e il suo modo di giocare con le tasche e di posizionarle estrapolandole dal loro contesto, per poi rimetterle in un’altro o di fregarsene letteralmente delle “vestibilità”, permettendo a ognuno di indossare il capospalla come meglio preferisce, scalando una taglia o aumentandola, in virtù del fatto che le sue giacche non sono “giacche” nel senso stretto del termine: ma giocano invece un ruolo molto importante nella costruzione dello stile globale del prodotto.
Le sue giacche, appunto, guardiamole bene: si possono usare come un blazer, come una giacca da lavoro… possono essere portate sopra a un gilet, ma lo stesso gilet può anche essere portato sopra la giacca stessa, in un richiamo al concetto di travelling e al mondo militare che io ho sempre amato… e anche qui la multifunzionalità delle tasche mutuate dai gilet tattici o da quelli comunemente definiti “safari” è emblematica dell’approccio raffinato che Daiki sa dare al suo prodotto.
L’uso delle fantasie poi è un elemento fondamentale.
Engineered Garments più di ogni altro ha saputo nell’ultimo anno con le due stagioni uscite, far passare un messaggio preciso e sempre più innovativo (che peraltro è sempre stato presente fin dalle origini, ma secondo me mai così chiaro e definito come nelle ultime due stagioni) nell’uso dei checks, di volta in volta mutuati dai madras o da disegni “flannel”, ma anche righe, fiori: sempre perfettamente abbinati.
La camicia in oxford, unita o rigata, con il tipco taglio 19th Century è poi ineccepibile.
Ma il 2011 ha sublimato anche molti altri marchi di riferimento, quasi tutti anglosassoni, ricordo il lavoro di Universal Works, Heritage Research, Utile Clothing, Folk, Garbstore… tutti forieri di questo grande lavoro di revisione e modernizzazione del workwear e ovviamente, molti Giapponesi: non certo nuovi a questo approccio, ma certamente ora più “sentiti”; a me sono piaciuti i ragazzi di Beams Plus che hanno proposto capi stupendi mutuati da pezzi classici e rivisti con grande intelligenza, si veda l’utilizzo del pile in certi gilet che si ispirano a un certo outdoor tecnico, ma urbanizzato.
Ma anche il nuovo corso di Nigo, ex creatore di Bathing Ape che ha traslato in modo ineccepibile nella sua nuova collezione i mondi work, denim e military abbandonando finalmente il fashion: se ne sono accorti in pochi sembra.
Il 2011 è stato anche l’anno del chino, nelle sue varie logiche.
Per me questo aspetto è stato fondamentale perchè in questo ambito finalmente si è tornati a fare ricerca.
Tralascio volutamente una sorta di imbastardimento del chino fatto dai brand “modaioli” che lo hanno stravolto con improponibili vestibilità aderenti, soprattutto per l’uomo, in una sorta di “offesa” della tradizione, una metodologia questa da cui ho sempre preso ragguardevoli distanze.
Parlo di chi, come nei marchi sopra citati, ha saputo proporre un chino autentico, ben conscio però che anche qui, dettagli, tessuti (soprattutto), confezione e un certo studio accurato del fit andavano rivisti e guarda caso anche qui le tasche giocano un ruolo fondamentale, perchè vengono riprese da capi militari e applicate su chino molto istituzionali: non è facile, ci vuole cultura, bisogna avere “spessore”.
Nel denim, si è rivisto davvero un ritorno all’autenticità, espressa in modo egregio da numerosi brand che hanno saputo reinventare letteralmente il primordiale cinque tasche.
Anche qui, l’eccellenza viene da brand che hanno saputo essere diversi dalle storiche etichette Giapponesi: attenzione, non che i Giapponesi abbiano perso la via della ricerca, tutt’altro, ma ormai ci hanno abituato all’eccellenza ed è ovvio che in questa fase il mio sguardo si sia posato maggiormente in Europa e negli States .
Infatti, nel caso di brand anglosassoni o americani, in molti casi si è inteso costruire il denim con dettagli ispirati dal workwear del 1800 e questo è stato un primo interessante approccio e credo che gente come quella di Rising Sun possa dettare legge in merito a questo approccio.
Vicino a queste contaminazioni “originali” (delle origini) che poi ovviamente si ritrovano anche nelle linee di ricerca dei brand storici (Levi’s Vintage Clothing su tutte) ho trovato in Raleigh, Natural Selection e pochi altri una visione davvero interessante del mondo denim.
In Italia Nicola Bardelle di Jacob Cohen è riuscito nella sua linea Premium, a offrire un denim autentico e nello stesso tempo moderno: anche qui il dettaglio del labelling è stato determinante, avendo infatti la fortuna di aver lavorato su questo progetto ho cercato di trasmettere lavorazioni di costruzione dell’etichetta tessute che ormai erano dimenticate, come quelle a navetta. Così come i ragazzi di Redux, con i quali ho collaborato nella stesura e definizione di certi dettagli grafici del labelling, hanno ben mescolato un certo workwear (la cucitura a tre aghi) con il mondo del cinque tasche, riuscendo a definire qualcosa di davvero nuovo e diverso nel panorama internazionale, che personalmente ho apprezzato.
Il 2011 ha finalmente visto, infine, l’inizio di un percorso di definitivo tramonto delle grafiche ostentate “per forza” su t-shirt, felpe o sul capospalla, dei loghi, delle stampe e delle applicazioni poste solo per “brandizzare”: di questo sono felicissimo, sebbene nel tempo posso dire di essere stato un precursore di questo tipo di personalizzazione e non escludo certamente che tornerà prima o poi o che in certi specifici casi sia elemento importante (si pensi al lavoro, eccellente, di The Real McCoy: che sublima in modo emozionante, sui suoi capi, la ricerca storica della grafica di ispirazione militare) ma davvero adesso non è più il caso.
Piuttosto spostiamo il tiro sull’aspetto importante degli “interni”, dello studio sull’etichetta e sul cartellino che sono fondamentali per la distinzione del prodotto e dove brand come RRL hanno davvero segnato la “tacca” di riferimento: con gusto, equilibro e tanta ricerca.
Anche in questo, i brand Italiani sono carenti: tranne rare eccezioni l’etichetta concettuale o il cartellino ricercato vengono visti come “un costo in più” e non come un valore aggiunto.
Il 2011 ha insegnato e dimostrato invece che “fuori”, nel mondo reale, questo valore aggiunto ha fatto la differenza nel prodotto, ha raccontato storie, ha espresso al meglio il messaggio del designer.
Un 2011 quindi che per me si chiude in modo positivo, per una serie di motivi.
In primis aver toccato con mano un grande fermento creativo, che c’è, permane e sta crescendo fortemente nonostante la crisi (che non tocca certamente i brand citati!) e che serve a dimostrare, se ancora ce ne fosse bisogno, che chi innova e propone trova sempre i suoi spazi e la sua clientela rispetto a chi segue, affannandosi, le richieste di un mercato “commerciale” sterile e vecchio.
In secondo luogo, e forse è questa la cosa migliore, ho potuto apprezzare il lavoro di colleghi che ho sempre stimato e seguito e che in alcuni casi mi hanno ispirato ma soprattutto mi hanno spinto a rivedere in retrospettiva il mio lavoro e di rivalutare il mio operato, con una ricerca storica (su me stesso) molto personale e anche affascinante, tra disegni e progetti consegnati nel tempo, vecchi faldoni pieni di schizzi, vecchi bloc notes disegnati in viaggio e in ufficio… e di poter di conseguenza rafforzare con grande cognizione di causa il servizio reso ai miei clienti.
Definitivamente: un 2011 molto proficuo, non avrei potuto sperare di meglio.
Questo è anche l’ultimo post del 2011 su K-Workshop.
So che non sono riuscito, quest’anno a scrivere tutti gli articoli che avevo in mente, ed erano veramente tanti, credetemi… ma il poco tempo a disposizione e i tanti progetti hanno catalizzato altrove tutte le mie forze.
Prometto che l’anno prossimo mi impegnerò di più e di certo ci sarà qualche novità, molto interessante, che sarete i primi a conoscere.
Buon 2012 a tutti!