Il 2012 si presta ormai a concludersi, la fine del mondo auspicata dai Maya non si è vista e ci stiamo tutti apprestando a fare progetti e programmi per il 2013.
Tutto continua insomma.
E questo momento, che per chi fa il mio lavoro si presenta senza soluzione di continuità, visto gli imminenti impegni tra produzione, fiere e studio delle collezioni SS2014, può anche essere il momento di riflettere su alcuni punti che riguardano appunto l’ambito del lavoro… io comincio con un’affermazione: nel 2012 nel settore dell’abbigliamento se ne sono viste di cotte e di crude.
La maggior parte delle cose che ho visto mi sono piaciute e mi hanno confermato che la mia ben nota visione sullo spostamento lento, ma costante e regolare dei mercati internazionali sui prodotti ben fatti, ben progettati, con una loro anima, fabbricati in Italia, con materiali Italiani e cultura Italiana non era solo la visione di un designer “un pò poeta” come amava definirmi un mio caro amico e cliente* con cui spesso si discuteva di questi aspetti, ma una strategia precisa dei clienti internazionali, soprattutto di mercati come quello Giapponese, ma anche di altri paesi Asiatici e di cultura “qualitativa”.
Ma se questo vale per i clienti esteri e per pochi, rari clienti storici Italiani, che ormai si contano forse sulle dita di una mano (come Protec di Bologna, per citarne uno soltanto) per la maggior parte delle aziende Italiane è un concetto che deve ancora “arrivare”.
Nel 2012 ho avuto alcuni incontri e discussioni con imprenditori che mi hanno convocato per nuovi progetti o evoluzioni del loro prodotto verso un livello superiore, proprio perchè conoscono la mia visione e la mia cultura di design e di costruzione strategica del prodotto (che non comprende solo lo stile) ma ciò che mi ha colpito è stato che la maggior parte di loro parlava di argomentazioni che onestamente mi parevano in netto contrasto con quanto loro in realtà mi chiedevano di fare.
La maggior parte di loro iniziava la riunione citandomi uno o due competitor di successo (o presunto successo e generalmente in segmenti di mercato diversi da quello a cui loro anelavano!) e mi chiedeva come si poteva copiarli o prendere spunto da quello che facevano, parlandomi poi di “portare via” in una o due stagioni (gli imprenditori Italiani hanno sempre una fretta bestiale!) quote di mercato a questo o quel brand, con prodotti “furbi” (cit. “acquistiamo in Cina a basso prezzo, applichiamo un mark up consistente grazie alla forza del nostro marchio (sic) e ci guadagniamo una bella differenza”).
Ora, sul termine prodotti “furbi” e sulla loro progettazione, confesso che non sono ancora sufficientemente preparato.
Non ho neppure, a dire il vero, una grossa preparazione sul “furto” di quote di mercato.
Ma so di essere piuttosto bravo a capire che queste logiche sono vecchie, superate e oserei dire anche un pò tristi.
E sono anche molto lontane da come lavoro io, ma soprattutto da come ho sempre lavorato.
Però questo è ancora il sentire di molte aziende e marchi Italiani, che io vedo paralizzate su stilemi obsoleti, su deja vu disarmanti, su concetti di progettazione antiquati.
I designer che “girano” da noi e che progettano le collezioni di molti brand del settore sportswear, denim, casual sono sempre gli stessi, ed il conseguente risultato è che tutto è appiattito su uno o due nomi che vivono ancora di situazioni personali storiche (a suo tempo) favorevoli ma che altro non fanno che citarsi in continuazione, evitando di esplorare nuove strade e senza il coraggio di essere invece propositivi e innovativi: di fare quindi il loro lavoro.
Le stesse aziende, mi capita di vedere, quando mi illustrano nelle loro collezioni quello che gli ha fatto “questo o quel” collega, mi appaiono onestamente un pò spaesate.
Vedo in più aziende lo stesso pantalone, la stessa giacca, la stessa grafica di t-shirt e quando dico: “ma è uguale a quello di questo o quel marchio!” la risposta è quasi sempre: “ma lo stilista mi ha detto che questo modello certamente farà i numeri perchè ce l’hanno tutti in collezione”
I numeri. Ce l’hanno tutti in collezione.
Ecco, quando sento questi ragionamenti mi rendo conto che probabilmente i “numeri” questo o quel capo copiato potranno anche farli sul nostro mercato stantio, ma sono numeri effimeri, che danno un breve beneficio all’azienda, perchè rincorrere le tendenze con una o due stagione di ritardo o lavorare con designer che basano la loro progettazione sullo shopping che poi “rigirano” pari pari a tutti i loro clienti con piccole modifiche è un modo penoso e obsoleto di costruire il futuro.
E qui mi rendo conto di quanto io sia diverso e di quanto questo essere diverso sia un bene.
La crisi, a guardare bene, forse è nata anche per questo… le persone non entrano più con piacere nei negozi, perchè non trovano più nulla di interessante, i negozianti di conseguenza non pagano più bene i loro fornitori o si sono appiattiti su posizioni stanche e depressive perchè vengono ancora subissati di prodotti tutti uguali che si differenziano probabilmente solo per un logo, a prezzi spesso esagerati rispetto al loro valore vero e che finiscono per non attrarre più il consumatore finale: che guarda caso si rivolge a prodotti più “autentici”, più “di qualità”, più di “ricerca”.
Molti buyer Italiani che si vedono alle fiere sono quasi dei walkin deads che “ciabattano” di stand in stand, senza sapere neppure cosa cercano… perchè poi, alla fine, sanno già che faranno sempre l’ordine dal solito marchio che, magari, si è inventato l’ennesima variazione sul tema dei teschi o delle grafiche ironiche, piuttosto che l’ennesimo pantalone da donna skinny colorato, magari fluo (tanto per non sbagliare).
Spero davvero che questo sistema si accorga che la nostra produzione di marchi nei settori del casual, dello sportswear e del denim è fortemente povero di contenuti e ricco di fumo.
Spero davvero che nuove aziende o le aziende che hanno in mano grossi brand e che hanno potuto dire la loro, possano avere il coraggio di percorrere strade nuove, di aprirsi a sperimentazioni e innovazioni a tornare a lavorare come si lavorava alla fine degli anni 80 e come si è lavorato fino alla fine degli anni 90: quando sono state scritte pagine di grande successo gettando le basi di una produzione Italiana sia a livello creativo, che produttivo che tutto il mondo ci invidiava e che adesso è solo l’ombra di se stessa.
Scrivevo, nel titolo, di una nuova avventura che spero inizi nel 2013.
Un’avventura che coinvolga le aziende Italiane che si occupano di moda a tutti i livelli spingendole a ricominciare ad avere il coraggio di seguire vie personali, strade innovative, metodologie diverse di lavoro, a fare ricerca e sviluppo (e non a tagliarla, in nome di una presunta crisi che nel settore dell’abbigliamento sportswear nasce proprio per gli errori fatti!) a lavorare con designer che seguono la loro via e che si sono prefissi di essere coerenti, onesti e soprattutto coraggiosi.
Vedremo come va, io sono fiducioso, il percorso è iniziato e la strada è segnata: chi non se ne è accorto è destinato alla scomparsa, chi inizia a muoversi in questa direzione invece, potrà sperare in una nuova era di grande successo.
Intanto per chi ha voglia di farsi una chiacchierata con me e magari bere un buon caffè, sarò, come sempre, a Pitti Uomo Edizione 83 dal 8 al 11 gennaio 2013, presso Sala della Ronda B al booth 17, dove presenterò il progetto 1ST PAT-RN e dove incontrerò anche i clienti per iniziare a discutere delle nuove collezioni per la SS2014.
Vi aspetto e nel frattempo auguro a tutti i miei clienti e amici un Natale ricco di pace e un grandioso 2013!
Cristiano
* Il 2012 ha visto anche andarsene un amico, prima di tutto, e poi un grande imprenditore e mio cliente storico che delle filosofie di cui parlo era un precursore, una persona che ha sempre seguito la sua strada, che ha innovato, creato e progettato da zero, con cui lavorare era un privilegio e un continuo scambio (a volte duro e difficile, è vero) che arricchiva comunque sempre, un imprenditore che chiedeva al sottoscritto di fare cose nuove, di percorrere nuove vie, di andare sempre per la sua strada.
Mi definiva il “poeta”… ma forse lo era più lui di me.
Ciao Nicola.